Bruner negli anni ’70 parla di scaffolding riferendosi all’intervento di una persona “esperta” nei confronti di una “meno esperta“.

E’ un concetto legato a quello di prossimità, ossia alla presenza costante e non invasiva di una figura di riferimento. Questa figura può avere, tra le altre, anche funzioni di regolazione emotiva nei confronti dell’altro. Queste funzioni sono prevalenti nei primi anni di vita.

Ma in realtà il tema dello scaffolding rimane attuale anche nella vita adulta. Questo avviene in quelle fasi critiche di cambiamento e crisi esistenziale.

In un’ottica sana che esula dalla dipendenza, l’obiettivo è mirare a un’autonomia emotiva. Questo deve partire però da una presa di coscienza di non autonomia.

Sembra un paradosso ma per costruire autonomia bisogna ammettere di aver bisogno dell’altro.

Non in via definitiva si capisce, ma certamente in modo transitorio e non permanente, costituisce ricchezza di esperienza umana.

Quando il re scopre di essere nudo, il trauma dell’esposizione è seguito dalla possibilità di scegliere un nuovo abito. Questo viene scelto secondo il proprio tempo e desiderio. Il nuovo abito è più adeguato, più confortevole, più consono.

Ma per fare questo non abbiamo forse bisogno di uno specchio? E di qualcuno che lo possa sostenere?

E possiamo pensare metaforicamente alla relazione con l’altro come un’esperienza di sostegno di uno specchio personale? Può essere un luogo dove potersi smarrire e ritrovare? Un luogo dove poter sperimentare e osare? Un luogo dove poter rischiare ma in sicurezza? Un luogo dove poter trovare segnali che ci educano su come decifrare le nostre emozioni e i nostri meccanismi?

Capiremo allora che il merito non è non cadere bensì avere il coraggio di riportarsi su. In questa esperienza la struttura di scaffolding costituirà la giusta impalcatura, temporanea ma necessaria per riparare e ripartire.

Floriana Terranova

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